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Non è strano che Gesù dica: «Se nel presentare un’offerta all’altare ti ricordi che un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono, davanti all’altare, va prima a riconciliarti con tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt. 5,23-24). Il perdono, la riconciliazione, è una pratica essenziale nelle relazioni umane, così come nella relazione con Dio, che è tutto amore e misericordia. Il padre, nella cosiddetta parabola del figlio prodigo, ama i suoi due figli, però il grande problema della riconciliazione sorge tra i due fratelli. Il maggior si sente incapace di perdonare il minore.
Nella sesta richiesta, si chiede: «Non ci indurre in tentazione». Tradizionalmente, si è usata questa traduzione. Il 22 maggio 2019, la Conferenza Episcopale Italiana, d’accordo con papa Francesco, ha adottato una nuova traduzione più affine al suo senso teologico: «E non abbandonarci alla tentazione». In spagnolo, si usa l’espressione: «E non lasciarci cadere in tentazione». Il testo originale greco è il seguente: «kαὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν» (Mt 6,41). La traduzione del verbo non risulta semplice: «Non permettere di entrare (in tentazione)». È una decisione che passa per il cuore di ogni persona ed è vitale nei tratti iniziali del percorso. L’espressione indurre può risultare equivoca, perché sembra che sia Dio colui che tenta. La tentazione viene dal diavolo, come vediamo nella vita stessa di Gesù che subisce tre tentazioni prima di iniziare la sua vita pubblica. Esiste una grande differenza tra tentazione e prova. La tentazione non spinge al male. Resisterle ci rende più forti, ma la nostra fragilità richiede l’aiuto di Dio per non soccombere. La prova, una volta superata, ci consolida. Chiediamo a Dio che la prova non superi le nostre forze. Per questo, il Padre Nostro si chiude con l’ultima richiesta: «Liberaci dal male».