La legge del Padre, condivisa da alcune religioni monoteiste, mette l’essere umano sotto il giogo del premio o del castigo, della colpa e della punizione. Quali sono gli effetti psichici e spirituali di questa condizione? Possiamo trasformare questa legge nel nostro cuore?
Avevo circa dieci anni. La maestra stava interrogando una mia compagna seduta all’ultimo banco, e io – per guardarla – mi ero girata dando le spalle alla cattedra. A un tratto, un baleno: due violenti schiaffi strinsero a tradimento il mio viso tra la morsa delle sue mani smaltate e ingioiellate (e perciò più micidiali). Fu una scudisciata. Emisi un singulto di spavento, le orecchie mi fischiavano, la vista si offuscò, le guance s’infiammarono, mentre la maestra mi passava davanti sibilando, affinché tutti gli altri bambini la udissero: «Così impari a non suggerire». Non lo avevo fatto, ma ovviamente non era questo il punto… Provai rabbia, sentivo tutta la viltà della motivazione davanti alla voragine che in quel momento si apriva dentro di me. Lo choc non era solo mio, gli altri bambini ammutolirono: per quanto sollecitati dal comportamento quotidiano di colei che avrebbe dovuto avere cura delle nostre menti e delle nostre anime, non ci eravamo assuefatti alla violenza. Giunta a casa dissi ai miei genitori: «Da domani cambio classe, altrimenti non andrò più a scuola…». Ma quanto più raccontavo l’accaduto, tanto più dall’altra parte non scorgevo alcuna indignazione. Erano gli anni ‘70, e temo che vigesse una sorta di timore reverenziale nei confronti dell’insegnante da parte di chi aveva frequentato a malapena le prime classi delle elementari. Così, la ferita inferta tra i banchi si approfondì ulteriormente tra le mura domestiche.