morte e immortalità
Una dissertazione sul fenomeno della morte e sulle tappe di comprensione che possono accompagnarla. Un cammino inteso non solo come un avvenimento che coinvolge il corpo fisico, ma come la metafora di un percorso di profonda trasformazione.

Gli esseri umani costellano scelte e visioni del mondo che orbitano come pianeti in un cielo soggettivo, basato su cognizioni, dati, emozioni, e illuminato da un sole i cui raggi sono certezze che però sovente si rivelano niente affatto certe. Si incaponiscono però, gli esseri umani, nel considerarle quotidianamente imprescindibili, inevitabili, permanenti e scontate, poiché note.

Suona piuttosto paradossale e persino beffardo constatare invece che l’unica loro vera certezza, della quale peraltro si dimenticano costantemente, sia un mistero. 

Infatti si nasce in questo mondo, per quanto possibile si cresce e infine si muore: di sicuro e senza eccezione la morte arriva per tutti, ma non si sa quando, né come, o dove, e nemmeno se e cosa succeda dopo. Assaggiamo solo lo spavento e la costernazione della perdita quando si tratta della morte di qualcun altro, non della nostra. Esattamente così come la nostra morte appartiene solo agli altri, “sta a loro scriverne il romanzo, narrarne la storia esteriore, mitica”.[1]

E per fortuna questo mistero ci salva dall’ansia dell’attesa di una data certa, da un’esistenza in fuga da quel dato luogo e nel terrore di quella particolare attività. Conoscere quando, dove e come moriremo ci impedirebbe di vivere, ma questa nostra benedetta ignoranza non ci impedisce comunque di averne paura e ci difendiamo non pensandoci mai.  

[1] Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, pag. 106. 

 

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